Vai ai contenuti

Santi del 16 Ottobre

Il mio Santo > I Santi di Ottobre

*Beato Agostino Thevarparampil (Kunjachan) - Sacerdote (16 ottobre)
Ramapuran (Kerala), India, 1 aprile 1891 – 16 ottobre 1973
L’indiano Augustine Thevarparampil (chiamato dal popolo "Kunjachan", ossia "piccolo prete" per la sua statura), sacerdote della diocesi di rito Siro-Malabarese di Palai, in Kerala (1891-1973).

Consacrò la sua vita alla promozione umana e cristiana dei cosiddetti "intoccabili", cioè coloro che vivevano ai margini della società, in condizioni di estrema povertà.
Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino
A causa della sua bassa statura, veniva chiamato popolarmente “Kunjachan”, che nella lingua maiayalain dell’India, significa “piccolo prete”.
Agostino Thevarparampil nacque il 1° aprile 1891 a Ramapuran, diocesi di Palai nello Stato del Kerala in India, evidentemente in una famiglia cristiana; una volta terminati gli studi scolastici nel suo paese, entrò nel seminario di Palai, dove completò la sua preparazione morale e di studio, venendo ordinato sacerdote il 17 dicembre 1921, quindi a 30 anni, dal vescovo Mar Tommasi Kurialacherry, anch’egli futuro Servo di Dio.
Due anni dopo, nel febbraio 1923, fu mandato come vice parroco nella parrocchia di S. Sebastiano a Kadanad, ma una improvvisa e grave malattia, lo costrinse a lasciare l’incarico e a ritornare a Ramapuran.
Durante la sua lunga convalescenza, poté conoscere un’altra realtà sociale dell’India e per lui un nuovo campo di azione, che fino a quel momento era trascurato da tutti e cioè, la miserabile situazione di vita dei cosiddetti ‘intoccabili’, ossia gli appartenenti alle classi più basse della società indiana, da noi conosciuti come ‘paria’, cioè non appartenenti a nessuna casta.
Già Gandhi (1869-1948) per primo prese a chiamarli ‘Harijan’, cioè ‘popolo di Dio’, oggi sono chiamati ‘Dalit’. Per secoli tutte queste persone, erano considerate “inavvicinabili” o “intoccabili” e vivevano sui terreni che appartenevano ai membri delle classi superiori, dei quali erano braccianti e forza di lavoro, naturalmente con compenso minimo e senza tutele di nessun genere.
Apro una parentesi, ricordando che questa realtà indiana era ed è così vasta e radicata, che costituì il campo di lavoro, della più conosciuta, Beata Madre Teresa di Calcutta.
Ritornando a padre Agostino Thevarparampil, egli allora decise di donarsi totalmente per migliorare la loro vita e anche per la loro evangelizzazione. Ma ben presto si accorse che il compito era difficile, perché si trattava di condurre alla fede cristiana e alla fiducia in loro stessi, gente impregnata di credenze e pratiche superstiziose; ma padre Agostino di carattere umile e semplice, si rimboccò le maniche e si pose al loro servizio con carità, privilegiando i più poveri e deboli.
Già alle quattro del mattino, dopo la celebrazione della Messa nella sua parrocchia di S. Agostino, accompagnato da un catechista, andava a visitare le loro capanne, anche oltre il territorio della sua parrocchia, chiamandoli ‘figli miei’, ascoltava, confortava, cercava di riappacificarli nelle discordie e curava i numerosi malati.
Non sempre era accolto con gioia, dato i pregiudizi; a volte si nascondevano per non farsi trovare, ma padre Agostino non desisteva dalla sua missione, senza scoraggiarsi. Conosceva il nome di ciascuno ed essi gioivano nel sentirsi chiamare per nome, grande amico dei bambini, amava molto stare in loro compagnia; la sua bassa statura gli permetteva di entrare e uscire dalle loro misere capanne senza difficoltà.
Trovava la forza di affrontare questi numerosi e faticosi spostamenti, nella preghiera, infatti pregava continuamente anche durante i suoi spostamenti da un villaggio all’altro. Il suo perseverare discreto e rispettoso delle loro credenze, diede comunque i suoi frutti, vincendo la loro diffidenza e poté battezzare personalmente quasi seimila persone.
La sua lunga opera missionaria, in un periodo di grande povertà per quell’immenso Paese, precorritrice di altre opere e di altre figure missionarie, gli meritò il nome di “Apostolo degli Intoccabili”, Kunjachan visse fino agli 82 anni, dopo 52 anni di sacerdozio e di vita missionaria come prete diocesano; morì il 16 ottobre 1973; fu sepolto nella sua chiesa parrocchiale di Ramapuran, davanti all’altare di Sant'Agostino, diventando meta di pellegrinaggi.
É stato beatificato il 30 aprile 2006.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Non sempre l’essere piccoli di statura rappresenta un grosso handicap: lo potrebbe testimoniare don Agostino Thevarparampil, che tutti chiamavano “kunjachan”, cioè piccolo prete, ma che proprio grazie alla sua statura bassa non faticava per niente ad entrare nelle basse capanne dei suoi parrocchiani, e quando giocava con i bambini si sentiva perfettamente alla loro altezza. Nasce in India, in una famiglia cristiana, il 1° aprile 1891 e viene ordinato sacerdote a 30 anni, il che fa pensare ad una vocazione tardiva oppure a qualche difficoltà nello studio. Perché lui è un po’ il Curato d’Ars dell’India: non eccessivamente colto, semplice, umile, ma dal cuore talmente grande da affascinare chiunque.
Per 47 anni è soltanto un “curato di campagna” e almeno 40 di questi sono dedicati interamente ai poveri del villaggio, gli “intoccabili”, i “paria”, quanti cioè non appartengono a nessuna casta. E pensare che è piuttosto malaticcio e mai nessuno avrebbe scommesso su una simile resistenza fisica ed una tale costanza. Scopre gli “inavvicinabili” per caso, durante una lunga convalescenza, due anni dopo l’ordinazione e ad essi dedica tutto il suo ministero, combattendo contro l’ignoranza, i pregiudizi, l’analfabetismo.
E anche contro le dure critiche dei cristiani “per bene”, che non riescono a capire che cosa spinga quel povero prete verso quei disgraziati. La sua giornata inizia invariabilmente alle quattro del
mattino, dopo la messa celebrata in parrocchia nel cuore della notte. Accompagnato soltanto da un catechista, va a cercare i suoi “paria” ad uno ad uno, capanna per capanna, mentre questi ancora tentano di sfuggirgli, pieni anch’essi di pregiudizi e di superstizioni, schiacciati da una discriminazione che li ha spinti ai margini della società.
Per vincere la diffidenza e farsi aprire la porta e il cuore li chiama ciascuno per nome e l’effetto è quasi immediato su quella povera gente, abituata a non essere neppure nominata. Insieme all’annuncio del vangelo porta un messaggio di speranza e di emancipazione. Tiene un diario spirituale, in cui annota informazioni dettagliate su questi suoi parrocchiani “speciali”, con l’indicazione di nascite, matrimoni, decessi: una specie di anagrafe di cui i paria per la società non avrebbero avuto diritto.
Se don Agostino, come si calcola, ha avvicinato a Dio e alla Chiesa più di cinquemila persone, ben più numerosi sono i “paria”, oggi chiamati “Dalit”, ad aver ricevuto da lui una spinta ad uscire dalla schiavitù in cui erano stati confinati dalle classi sociali più elevate.
Perché sulla strada tracciata da don Agostino si sono incamminati altri tra cui, più famosa di tutti, Madre Teresa di Calcutta. Per lui, però, nessun riconoscimento, nessun particolare onore. Quando muore ha 82 anni, il 16 ottobre 1973, sfiancato dal suo pellegrinare porta a porta e dalle lunghe ore in confessionale, è conosciuto nel raggio di qualche chilometro.
Oggi invece alla sua tomba si accorre da tutta l’India, il suo villaggio si è trasformato in un centro fiorente e prosperoso e 60 mila persone hanno assistito alla sua beatificazione, celebrata lo scorso 30 aprile proprio nella sua parrocchia.
(Autore: Gianpiero Pettiti – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Agostino Thevarparampil, pregate per noi.

*Santi Amando e Giuniano (16 ottobre)

Martirologio Romano: Nel territorio di Limoges in Aquitania, ora in Francia, Santi Amando e il suo discepolo Giuniano, eremiti.
Nulla di certo sappiamo circa l'origine di Amando; vien detto nobile, di nazione ungaro. Poco prima del 490 giunse nella diocesi di Limoges, governata dal vescovo Ruricio I (fr. Rorice), e si fermò in un luogo solitario, non lontano dal villaggio di Comodoliac nel Limousin, bramoso di penitenza. Il presule,
essendone venuto a conoscenza, lo prese sotto la sua protezione e gli permise di costruirsi una piccola cella. Morì verso il 500. Il suo posto, però, non rimase vuoto perché da qualche tempo si era unito a lui un giovane di quindici anni, di nome Giuniano (fr. Junien), figlio, come sembra, del conte di Cambrai, il quale, data sepoltura al suo maestro, ebbe cura di continuare a vivere come lui era vissuto, nella mortificazione e nella preghiera.
E ne continuò anche i miracoli. Tra gli altri, liberò dal demonio o, secondo alcuni, da una grave infermità il nipote del vescovo Ruricio I, che poi succedette allo zio, morto un po' prima del 510, nella direzione della diocesi con il nome di Ruricio II.
Quando Giuniano, dopo quarant'anni di vita eremitica, salì alla patria celeste, Ruricio II ne depose i resti mortali in un sarcofago e vi innalzò sopra una chiesa intitolata a Sant'Andrea apostolo, dove egli stesso volle essere sepolto. Nel 1100, dopo la ricognizione delle reliquie effettuata dal vescovo di Périgueux, questo sarcofago fu chiuso in un monumento sepolcrale scolpito, che esiste ancora oggi. La chiesa di Sant'Andrea fu rifatta dalle fondamenta nel sec. XII e nel 1488 prese il nome di San Giuniano; oggi è sede della parrocchia.
Amando non ebbe mai la rinomanza del suo grande discepolo.
La sua tomba, di cui si era perduta perfino la memoria, fu ritrovata il 26 agosto 1083 e vi fu edificata sopra una chiesa, consacrata il 26 febbraio 1094, di cui restano soltanto le rovine nei sobborghi di Saint-Junien.
Le sue reliquie si trovano oggi nella chiesa parrocchiale del paese e riscuotono grande venerazione. La festa dei due Santi eremiti si celebra il 16 ottobre; tuttavia, Sant'Amando è ricordato anche da solo il 26 agosto.
(Autore: Alfonso Codaghengo - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Amando e Giuniano, pregate per noi.

*Sant'Anastasio di Cluny (16 ottobre)

+ 1085 circa
Martirologio Romano: A Pamiers presso i Pirenei sempre in Francia, Sant’Anastasio, monaco, che, nato a Venezia, condusse dapprima vita eremitica nell’isola di Rocher de Tombelaine vicino a Mont-Saint-Michel, poi monastica a Cluny, per ritirarsi infine negli ultimi anni in solitudine.
Sant’Anatasio, uomo assai erudito originario di Venezia, risulta essere monaco a Mont-Saint-Michel verso l’anno 1050. Constatata l’inadeguatezza dell’abate, che aveva ottenuto tale carica con la simonia, preferì lasciare il monastero e darsi all’eremitaggio su un’isoletta al largo della Normandia.
Dopo alcuni anni, passò da quelle parti Sant’Ugo di Cluny che, informato della sua santità, lo invitò ad entrare nel suo monastero. Trascorsi qui sette anni, il Papa San Gregorio VII lo inviò in Spagna per una qualche missione a noi non nota.
Ben presto già di ritorno, visse prima da eremita nei Pirenei, poi alri sette anni a Cluny ed infine nuovamente eremita nei pressi di Tolosa.
Predicò alla popolazione locale e per un certo tempo pare condivise la vita solitaria con l’ex-cardinale Ugo di Remiremont, già legato papale in Spagna e Francia, poi scomunicato per simonia.
Richiamato infine a Cluny nel 1085, Anastasio morì lungo il cammino e fu sepolto presso Saint-Martin d’Oydes. Il suo culto sopravvisse nonostante la profanazione del sacrario ad opera degli ugonotti nel XVI secolo.
Il Santo è presunto autore di una “Epistola a Geraldo”, costituente un trattato teologico sulla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia.
(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Anastasio di Cluny, pregate per noi.

*Beati Aniceto Adalberto (Anicet Wojciech) Koplinski e Giuseppe (Jozef) Jankowski - Sacerdoti e Martiri (16 ottobre)
Scheda del gruppo a cui appartengono:
“Beati Cinque Frati Cappuccini” Martiri Polacchi

Ulteriore scheda: “Beati 108 Martiri Polacchi”
+ Auschwitz, Polonia, 16 ottobre 1941
Padre Aniceto (al secolo Wojciech Koplinski), sacerdote cappuccino nato a Debrzyno (Polonia) il 30 luglio 1875, e Padre Jozef Jankowski, sacerdote pallottino (Società per l’Apostolato Cattolico) nato a Czyczkowy (Polonia) il 17 novembre 1910, mentre la loro patria polacca era in mano agli invasori tedeschi, furono deportati nel campo di concentramento di Auschwitz ove morirono entrrambi il 16 ottobre 1941, il primo nella camera a gas ed il secondo invece trucidato dagli aguzzini del campo.
Etimologia: Adalberto = di illustre nobiltà, dal tedesco
Martirologio Romano: Vicino a Cracovia in Polonia, nel campo di sterminio di Auschwitz, Beati Aniceto Koplinski, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, e Giuseppe Jankowski, della Società dell’Apostolato Cattolico, sacerdoti e martiri, che, durante l’occupazione militare della patria da parte dei seguaci di un’empia dottrina ostile agli uomini e alla fede, testimoniarono fino alla morte la fede in Cristo, l’uno ucciso in una camera a gas, l’altro dalle guardie del campo.
Anicet Wojciech Koplinski - Cappuccino Debrzyno, Polonia, 30 luglio 1875 - Auschwitz, Polonia, 16 ottobre 1941
É a partire dalla fine che spesso una vita riceve la sua luce. Questa constatazione è doppiamente vera per un uomo che il 13 giugno 1999 venne proclamato Beato a Varsavia da Giovanni Paolo II in occasione del suo ottavo viaggio in Polonia. Quest'uomo sarebbe rimasto sconosciuto, se non fosse giunto agli onori degli altari. Ma ora la sua vicenda getta un'ennesima luce nel tanto buio capitolo della storia tedesca di questo secolo. E anche nella vicenda umana, la sua fine manifesta chi è stato e per che cosa è vissuto.
Stiamo parlando di Aniceto Koplin, un cappuccino finora sfuggito alle cronache del mondo. Nato il 30 giugno 1875 in Preußisch-Friedland (oggi Debrzno) nella provincia di Prussia occidentale (Westpreußen) in Germania, una città confinante con la Polonia in cui forte era anche la presenza polacca.
Forti in particolare erano i rapporti tra i pochi cattolici tedeschi della zona e il gruppo dei polacchi soprattutto a causa della comune fede cattolica, che dava loro l'occasione di partecipare alle stesse liturgie e di condividere anche gli stessi lavori.
Il piccolo Adalberto, il nome che gli venne imposto nel battesimo, era il più piccolo di 12 fratelli, di una famiglia tutt' altro che benestante che si manteneva con lo stipendio del padre operaio. Adalberto, o semplicemente Alberto, come tutti lo chiamavano, conobbe anche i cappuccini noti in quel tempo per il loro apostolato sociale e ne ebbe anche un'esperienza diretta nella sua giovinezza. Il 23 novembre 1893 egli entrò nel lontano convento dei cappuccini di Sigolsheim nell'Alsazia (nella Prussia tutti i conventi cappuccini erano stati soppressi) appartenente alla provincia Renano-Wesfalica, e ricevette il nome di Aniceto (l'invincibile).
Il giorno dell'Assunta del 1900 venne consacrato sacerdote per svolgere poi il suo ministero innanzitutto a Dieburg, poi lungamente nella regione della Ruhr (Werne, Sterkrade, Krefeld) come assistente per la gente polacca. A casa aveva infatti un po' studiato polacco e l'aveva poi migliorato
personalmente durante gli anni di studio, sfruttando anche una volta il periodo di ferie presso la sua sorella che viveva in Polonia per trascorrere un periodo in un ambiente polacco. Nel suo apostolato nella zona della Ruhr la sua conoscenza della lingua polacca gli era molto utile, come anche la sua origine da una famiglia di operai.
Egli riusciva a capire la gente operaia, e viceversa essi capivano lui. La vicinanza affettiva alla Polonia, non diminuiva però il suo amore per la Germania: era un uomo di frontiera, ma anche un patriota. All'inizio dello scoppio della prima guerra mondiale compose delle poesie a favore della guerra, composizioni che oggi ci imbarazzano. Ma anche questa sua capacità poetica più tardi pose a servizio dei poveri che divennero sempre di più l'unico obbiettivo della sua attività pastorale.
La svolta fondamentale nella vita di p. Aniceto avvenne nel 1918 a Krefeld quando gli venne rivolta la richiesta di rendersi disponibile per la riorganizzazione della vita ecclesiale e dell'Ordine a Varsavia. Con entusiasmo accettò questa sfida. Dopo lunghi anni di dominio zarista, la Polonia aveva ritrovato la sua libertà. Però la situazione economica era disastrosa e molti erano i poveri e le famiglie che vivevano nella miseria. Né molti erano i grandi ricchi, come vediamo oggi nelle situazioni contraddittorie di paesi quali il Brasile, il Messico, l'India. P. Aniceto si fece mediatore tra questi due gruppi. Senza chiedere nulla per sé, sempre con il suo povero saio e con i sandali, lo si vedeva sempre a piedi per le strade di Varsavia a chiedere la carità per i suoi poveri. E ciò che poteva ricevere riponeva nelle profonde tasche del suo mantello: pane, salsicce, frutta, verdura, dolci per i bambini. Spesso si caricava sulle sue spalle pesanti pacchi o trascinava grandi valige piene di beni di prima necessità. Il 25 gennaio 1928 scrive al suo provinciale padre Ignazio Ruppert: "Un particolare impegno, che rappresenta spesso un lavoro gravoso, costituiscono per me i numerosi poveri e la molta gente qui senza lavoro, per i quali quasi giornalmente esco per la questua". Era stimato per questo come "san Francesco di Varsavia".
Non si è lontani dal vero se si interpreta la sua attività di questuante per i poveri come un'espressione di attività sportiva.
Fin dalla sua giovinezza egli si era esercitato giornalmente nel sollevamento dei pesi. In occasione della preghiera di mezzanotte, tradizione che per ogni frate iniziava dal noviziato, egli, prima della preghiera o dopo essere tornato in camera, si esercitava nella sua specialità. La sua costanza lo portò ad una grande potenza muscolare così da poter fare cose straordinarie, con la gioia dei suoi confratelli o a vantaggio dei poveri o anche a servizio dell'attività pastorale. Così alzava tavoli e banchi o mostrava le sue capacità nelle feste paesane per poi passare con il "cappello" (zucchetto) chiedendo la ricompensa per i suoi poveri. Si racconta che un poliziotto violento con la sua moglie e i suoi bambini, nonostante le sue ripetute confessioni, non riusciva a migliorare il suo carattere aggressivo. Un giorno padre Aniceto lo portò in sagrestia, lo prese per la cintura e lo sollevò sopra la sua testa urlandogli: "Vedi cosa posso farti? E che farà Dio con te se continui ad essere così violento?". La lezione fu efficace, il poliziotto si liberò dalla sua violenza.
Quando padre Aniceto non era in giro per i suoi poveri, sedeva spesso nel confessionale della chiesa dei cappuccini di Varsavia. Ogni mattina iniziava a confessare un'ora prima della messa e vi restava per tutta l'ora seguente, e di nuovo alla sera, quando ritornava in convento dalla sua questua. Svolgeva questa attività più volentieri che predicare, richiesta quest'ultima che gli veniva rivolta soltanto di rado dal superiore, a causa della sua conoscenza limitata del polacco.
Ai molti sacerdoti che venivano al suo confessionale impartiva delle brevi ma molto efficaci ammonizioni in latino; egli venne scelto come confessore dai vescovi Gall e Gawlina, e anche dal cardinale Kakowski e dal nunzio apostolico Achille Ratti, il futuro Pio XI. Come penitenza normalmente imponeva di fare un'elemosina per i poveri, penitenza data anche al cardinale Kakowski al quale impose di donare durante il tempo invernale un carro di carbone per una famiglia povera.
Padre Aniceto si prese cura dell'anima e del corpo degli altri. Chiedeva ai ricchi pane per i poveri, ma invitava questi a pregare per sé e per i ricchi: davanti a Dio ognuno porta la responsabilità dell'altro. Di grande significato era vedere davanti al suo confessionale officiali dell'esercito accanto ai contadini, donne eleganti vicino a povere vedove. Il cappuccino aveva lo stesso amore per tutti. La notizia che qualcuno era morente lo faceva correre al suo capezzale per consolarlo e portargli i sacramenti della confessione e della comunione. E se qualcuno moriva abbandonato da tutti, egli si prendeva cura anche della sepoltura. Spesso prendeva parte ai riti funebri e alla processione verso il cimitero, pregando lungo la via il suo breviario o il rosario, e a volte succedeva che tanta era la sua immersione in Dio da non accorgersi dell'entrata del cimitero così da andare oltre mentre il corteo funebre svoltava verso il camposanto.
Aniceto Koplin era di nazionalità tedesca. Non lo nascondeva, nemmeno quando la politica di Hitler aveva iniziato a rivelarsi inaccettabile. Quando si trovava a discutere con i suoi confratelli egli spesso batteva i pugni contro il tavolo parlando degli avvenimenti politici della Germania. Aveva intravisto e capito lo spirito anticristiano del nazionalsocialismo e la sua visione demoniaca del mondo. Per Aniceto non si poteva entrare a patti con questa corrente politica. Avendo sperimentato
fin dalla sua giovinezza l'onestà e la fede della gente polacca, non poteva non schierarsi dalla loro parte, fino ad assumere, animato da una radicale solidarietà, il nome di Koplinski. Durante la prima settimana dell'occupazione tedesca in Polonia, egli rimase in convento. Ma subito lo si vide impegnato nell'aiuto ai suoi poveri e anche a coloro che dovevano fuggire a causa della violenza nazista. Dall'ambasciata tedesca, utilizzando la sua conoscenza del tedesco, ottenne i necessari permessi per ottenere viveri, vestiti, scarpe e medicine. Il padre Koplinski si impegnò anche per i cristiani non cattolici e per gli ebrei, cosa testimoniata dall'arcivescovo Niemira.
Per la Gestapo i cappuccini e in particolare p. Koplinski erano fumo negli occhi. Il giorno dell'Ascensione del 1941 ebbe luogo il primo interrogatorio. Il cappuccino prussiano, senza paura e con molta franchezza, come era sua abitudine, espresse un giudizio molto pesante: "Dopo quello che Hitler ha fatto in Polonia, io mi vergogno di essere un tedesco". È possibile ritenere che il padre cappuccino avrebbe salvato la sua vita, se si fosse appellato alla sua cittadinanza tedesca. Ma non sembra, per quanto sappiamo, che abbia tentato questa via di uscita, che poi avrebbe contraddetto la schiettezza e lo spirito di sacrificio che contraddistingueva la sua persona. Sta di fatto che il 28 giugno 1941, il giorno dopo l'attacco aereo a Varsavia, venne arrestato insieme ad altri 20 confratelli e rinchiuso nella prigione di Pawiak. Motivo dell'arresto era di aver letto fogli propagandistici antinazionalsocialisti e di aver espresso idee contrarie al nuovo regime.
Arrestati vennero rasati dei capelli e della barba e spogliati anche dei loro abiti religiosi, tuttavia fu concesso loro di conservare il breviario. Il padre guardiano e p. Aniceto furono torturati per spingerli ad autoaccusarsi, senza però riuscire a strappar loro l'ammissione di aver istigato la gente alla ribellione contro il regime. Egli rimase fedele alla sua vocazione di religioso e di sacerdote, anche dinanzi alle minacce e alle rappresaglie; ne fa fede quanto dichiarò apertamente durante gli interrogatori: "Sono sacerdote e dovunque vi siano uomini, io là opero: siano essi ebrei, polacchi, e ancor più se sofferenti e poveri".
Il 3 settembre furono caricati tutti in un carro bestiame per essere trasportati ad Auschwitz, dove ricevettero la tanto tristemente famosa casacca a strisce e un numero di prigionia. Era stata strappata loro la dignità di persone per essere ridotti ad un numero tra le migliaia di altri prigionieri. Avendo 66 anni P. Aniceto venne destinato nel blocco degli invalidi, che a sua volta era vicino a quello dei destinati allo sterminio. Non sappiamo bene quali soprusi e maltrattamenti egli dovette sopportare durante le cinque settimane che seguirono, ma lo possiamo un po' ricostruire dai racconti che riportarono i sopravvissuti. Possediamo però la testimonianza diretta del suo provinciale e compagno di prigionia p. Arcangelo, il quale racconta che "p. Aniceto, appena giunto all'entrata del campo di concentramento, venne bastonato perché non riusciva a tenere il passo degli altri; oltre ciò fu azzannato anche da un cane delle SS. Durante l'appello il frate cappuccino venne messo insieme agli anziani e a coloro che non potevano lavorare e collocato nel blocco vicino a quello dei destinati alla morte. Durante tutto questo periodo di sofferenze p. Aniceto ha pregato e taciuto, mantenendo costantemente la pace e il silenzio".
Questa testimonianza è sufficiente per farci intuire che il padre cappuccino, dopo aver spesso celebrato la via crucis e aiutato altri a portare la loro croce dietro Gesù, viveva quel momento
tragico della sua esistenza unito a Gesù e come sentiero doloroso verso il Golgota. Colui che fino a poco tempo prima aveva urlato per difendere i poveri e condannare il peccato, ora taceva e pregava. Prima di essere portato alla camera a gas, diceva ancora ad un amico: "Dobbiamo bere fino in fondo questo calice".
Il 16 ottobre gli aguzzini dopo aver allestito un breve processo, buttarono il p. Aniceto insieme ad altri prigionieri in una fossa e gettarono sopra di loro calce viva; una morte atroce, poiché la calce sprigiona una violenta attività corrosiva sui corpi vivi fino a consumarli come fosse fuoco.
Dopo essere vissuto povero ed essersi impegnato per i poveri, Aniceto Koplin ha incontrato sorella morte nella più totale povertà.
Esternamente era stato spogliato di tutto anche della sua carne, ma internamente rimase ricco di un tesoro che nessuno mai gli avrebbe potuto strappare: la fede, la dignità, l'attenzione amorosa agli altri. È morto nella speranza della resurrezione e nella fede che anche la sua sofferenza e atroce morte costituiva un aiuto per riconciliare gli animi divisi della Germania e della Polonia, dei giudei e dei cristiani, dei cattolici e dei protestanti, dei poveri e dei ricchi.
(Fonte: Santa Sede)
Giaculatoria - Beati Aniceto Adalberto Koplinski e Giuseppe Jankowski, pregate per noi.

*San Bertrando di Cominges - Vescovo (16 ottobre)

Martirologio Romano: A Cominges sempre sul versante francese dei Pirenei, San Bertrando, vescovo, che, su indicazione del Papa San Gregorio VII, si adoperò strenuamente per la riforma della Chiesa, restaurò la sua città rovinata dall’incuria del tempo e ricostruì interamente la cattedrale, dove istituì i canonici regolari sotto la disciplina di Sant’Agostino.
Nacque a l'Isle-Jourdain (Gers) verso la metà del sec. XI: era figlio di Attone Raimondo, signore del luogo, e di Gervasia, figlia del conte di Tolosa, Guglielmo Tagliaferro e sorella della regina Costanza, sposa di Roberto il Pio. Contrariamente a ciò che si afferma comunemente, Bertrando non fu allevato all'Escale-Dieu né alla Chaise-Dieu (entrambe le abbazie furono fondate dopo la morte del Santo), ma la sua educazione fu dapprima unicamente militare, come quella di un giovane nobile.
Ben presto, però, entrò nel clero, divenne canonico e arcidiacono di Tolosa (dopo il 1070), poi vescovo di Comminges verso il 1078-80, ricevendo la consacrazione episcopale ad Auch dalle mani dell'arcivescovo.
La sua opera pastorale fu di grandissima importanza: ridiede vita alla città episcopale, l'antica Lugdunum Convenarum, distrutta e abbandonata dopo il 585, la quale prenderà più tardi il suo nome (San Bertrando di Comminges, Alta Garonna), vi chiamò degli abitanti, vi costruì una cattedrale e un chiostro, vi fondò un capitolo di canonici sotto la regola di Sant’Agostino.
Visitò senza sosta la diocesi, in gran parte montagnosa e di difficile accesso, riconducendo, nello spirito della riforma gregoriana, il clero alla disciplina canonica e i fedeli alla pratica delle virtù cristiane: il suo sforzo fu confortato da molti e significativi miracoli.
Preso dalla febbre nel corso di una di queste visite pastorali, si fece ricondurre nella sua cattedrale, dove morì il 16 ottobre 1123 e nella quale fu seppellito.
La fama, che lo attorniava già da vivo, non fece che crescere coi miracoli che si manifestarono sulla sua tomba e il popolo non esitò a considerarlo un Santo. L'arcivescovo di Auch, Guglielmo II di Montaut, suo nipote, incaricò verso il 1167-70 il chierico Vitale di scriverne la Vita e di interessare alla sua causa di beatificazione il papa Alessandro III.
L'opera di Vitale è pressoché l'unica fonte che ci sia rimasta per Bertrando anche se, nel 1220, Onorio III ordinò a sua volta un'inchiesta sulla vita e i miracoli del grande vescovo.
La canonizzazione, questa volta, dovette seguire senza ritardo, quantunque se ne ignori la data esatta poiché la città vescovile è chiamata col suo nuovo nome di S. Bertrando dal 1222.
Comunque, la festa della depositio (16 ott.) si estese in tutta la Francia del sud-ovest. Ad essa, nel corso del sec. XIII, si aggiunse la festa della revelatio di San Bertrando (2 magg.), la cui origine fu un celebre miracolo operato dal Santo dopo la morte: egli era apparso a un cavaliere prigioniero dei
Mori e l'aveva liberato, in ricompensa di una buona azione compiuta nel passato. Infine, il vecchio vescovo di Comminges, Bertrando de Got, divenuto Papa Clemente V, procedendo il 16 genn. 1309 all'elevazione delle reliquie del santo, decise che anche l'anniversario di questa translatio sarebbe stato festeggiato.
Ai fedeli che visitassero la cattedrale di Comminges in queste tre feste e nelle loro ottave, Clemente V concesse anche delle indulgenze considerevoli.
Inoltre, un " gran perdono " o giubileo, di cui è difficile storicamente attribuirgli l'istituzione, ma che è stato approvato dai Papi Pio VI nel 1777 e Gregorio XVI nel 1839, può essere lucrato a San Bertrando di Comminges ogni volta che la solennità dell'invenzione della Santa Croce cade di venerdì.
Le reliquie di Bertrando, sfuggite prima al furore dei protestanti poi a quello dei rivoluzionari, sono state di nuovo riconosciute ufficialmente il 15 ottobre 1912.
La cattedrale di Comminges conserva anche un certo numero di oggetti (mitra, cappa, sandali, ecc.) che si crede siano appartenuti al Santo vescovo .
La diocesi di San Bertrando di Comminges è stata soppressa dal concordato del 1801 e il suo territorio diviso tra le diocesi di Tolosa e di Tarbes, ad eccezione di trentuno parrocchie situate in territorio spagnolo: il titolo episcopale è passato recentemente all'arcivescovo di Tolosa. La festa di San Bertrando si trova iscritta nei Propri diocesani di Tolosa, Auch e Tarbes, il 16 ottobre. Essa attira sempre molti fedeli nella vecchia città vescovile.
(Autore: Jean Charles Didier – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Bertrando di Cominges, pregate per noi.

*Santa Bonita di Brioude (16 ottobre)

Martirologio Romano: A Brioude presso Clermont-Ferrand in Aquitania, sempre in Francia, Santa Bonita, vergine.
Le lezioni del secondo notturno della sua festa in un breviario della basilica di San Giuliano a Brioude e un inno, Alumna Christi Bonita, forniscono le uniche notizie su Bonita, pressoché prive di autorità dal punto di vista storico.
Secondo queste fonti, Bonita, nata presso Brioude, ad Alvier, sulle rive dell'Allier, avrebbe arrestato un'inondazione e annientato i piani degli inglesi che assediavano il suo paese natale.
La festa era anticamente celebrata il 15 ottobre, ma fu spostata al 16 per accogliere quella di San Bertrando di Comminges.
Questa data indicherebbe, però, solo la traslazione delle reliquie che deve essere all'origine del culto di Bonita, non anteriore al VI sec.
La ricognizione dei resti, fatta verso il 1650, rivelò il corpo di una fanciulla di cui erano ancora perfettamente conservati i capelli biondi e gli abiti semplici.
Le reliquie di Bonita riposano a Brioude. La cappella, dedicata a San Martino, è ornata di vetrate che illustrano il miracolo dell'inondazione.
(Autore: Gilbert Bataille – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Bonita di Brioude, pregate per noi.

*Beato Bononato Marimondi - Mercedario (16 ottobre)

Cavaliere laico, il Beato Bononato Marimondi visse a lungo nel convento mercedario di Sant'Eulalia in Lérida (Spagna).
Con energica fede combatté valorosamente contro i mori e le sue virtù furono molto apprezzate dai cavalieri suoi confratelli che alla sua morte lo venerarono come Beato.
L'Ordine lo festeggia il 16 ottobre.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Bononato Marimondi, pregate per noi.

*Sant'Edvige - Religiosa e Duchessa di Slesia e di Polonia (16 ottobre – Memoria Facoltativa)
Andescj, Baviera, 1174 - Trzebnica, Polonia, 15 ottobre 1243

Nata nel 1174 nell’Alta Baviera, fu duchessa della Slesia, sposa di Enrico I detto il Barbuto.
La sua condizione nobile non le vietò di vivere a fondo la propria fede, dando prova di profonda devozione ed esprimendo in diversi modi la carità verso gli ultimi e l’intenzione totale di porre tutta la sua persona a servizio degli altri.
Provata da diverse sventure familiari e addolorata dalla rivalità tra i due figli, seppe mostrare sempre la mitezza e la saggezza di chi vive un profondo desiderio di pace. Stile che applicò nella vita di corte e nella politica estera.
Quando il marito fu fatto prigioniero di guerra ne ottenne la liberazione. Si adoperò per migliorare le condizioni di vita dei carcerati e usò gran parte delle sue rendite per i poveri.
Praticò un’austerità personale volta a una mortificazione offerta come segno concreto per chi viveva chiuso nel peccato e nell’egoismo.
Principessa e penitente, sposa fedele e madre dolorosa, sovrana giusta e benefica, Edvige morì nel 1243 e subito venerata come santa, sia dai fedeli germanici che da quelli slavi. (Avvenire)
Etimologia: Edvige = ricca guerriera, o fortuna in battaglia, dal tedesco
Martirologio Romano: Santa Edvige, religiosa, che, di origine bavarese e duchessa di Polonia, si dedicò assiduamente nell’assistenza ai poveri, fondando per loro degli ospizi, e, dopo la morte del marito, il duca Enrico, trascorse operosamente i restanti anni della sua vita nel monastero delle monache Cistercensi da lei stessa fondato e di cui era badessa sua figlia Gertrude.
Morì a Trebnitz in Polonia il 15 ottobre.
(15 ottobre: Nel monastero di Trebnitz nella Slesia, in Polonia, anniversario della morte di Santa Edvige, religiosa, la cui memoria si celebra domani).
I genitori Bertoldo e Agnese, di alta nobiltà bavarese, la preparano a un matrimonio importante, facendola studiare alla scuola delle monache benedettine di Kitzingen, presso Würzburg.
E a 16 anni, infatti, Edvige sposa a Breslavia (attuale Wroclaw, in Polonia) il giovane Enrico il
Barbuto, erede del ducato della Bassa Slesia.
Quattro anni dopo, Enrico succede al padre Boleslao e così lei diventa duchessa. Questo territorio slesiano fa parte ancora del regno di Polonia, ma si sta germanizzando. I suoi duchi, già dal tempo di Federico Barbarossa (morto nel 1190) gravitano nell’orbita dell’Impero germanico; la feudalità locale è invece di stirpe polacca, come la maggioranza degli abitanti, ai quali però si sta mescolando una forte immigrazione di tedeschi.
Edvige mette al mondo via via sei figli: Boleslao, Corrado, Enrico detto il Pio, Agnese, Sofia e Gertrude.
E si rivela buona collaboratrice del marito nel difficile governo del ducato: guadagna la simpatia dei sudditi polacchi imparando la loro lingua, promuove l’assistenza ai poveri, come fanno e faranno molte altre sovrane; ma con una differenza: lei vive la povertà in prima persona, giorno per giorno, con le regole severe che si impone, eliminando dalla sua vita tutto quello che può distinguerla da una donna di condizione modesta.
A cominciare dall’abbigliamento. I biografi parlano degli abiti usati che indossa, delle calzature logore, delle cinture simili a quelle dei carrettieri.
È poco fortunata con i figli, che non avranno rapporti affettuosi con lei, e che moriranno quasi tutti ancora giovani, tranne Gertrude.
Suo marito, Enrico il Barbuto, muore nel 1238, e gli succede il figlio Enrico il Pio, che già nel 1241 viene ucciso in combattimento contro un’incursione mongola presso Liegnitz (attuale Legnica).
Disgrazie in serie, dunque.
Ma i biografi dicono che lei le affronta ogni volta senza lacrime.
Forse perché è tedesca. E fors’anche perché è molto legata all’ambiente monastico del tempo, con tutto il suo rigore. (Alle molte preghiere e pie letture, Edvige accompagna anche penitenze fisiche durissime).
Eppure, quando si ritrova sola, non pensa di “fuggire dal mondo” subito, entrando in monastero.
No, prima bisogna pensare ai poveri, come dirà alla figlia Gertrude, non per motivi di buona politica, ma perché i poveri sono “i nostri padroni”.
E questo linguaggio richiama «la spiritualità degli Ordini mendicanti e in particolare quella dei Francescani, tra i quali Edvige, negli ultimi anni della sua esistenza, scelse il proprio confessore» (A. Vauchez, La santità nel Medioevo, ed. Il Mulino).
Entra infine nel monastero cistercense di Trebnitz (l’attuale Trzebnica) fondato da lei nel 1202.
E qui vive da monaca.
Anzi, da monaca superpenitente. Muore anche da monaca, chiedendo di essere sepolta nella tomba comune del monastero.
Tedeschi e polacchi di Slesia sono concordi nel chiamarla santa: nel 1262, sotto Papa Urbano IV, incomincia la causa per la sua canonizzazione, e nel 1267 Papa Clemente IV la iscrive tra i Santi. Il corpo sarà in seguito trasferito nella chiesa del monastero.
(Autore: Domenico Agasso – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Edvige, pregate per noi.

*Sant'Elifio - Martire (16 ottobre)

Martirologio Romano: Nel territorio di Toul in Francia, Sant’Elifio, che si tramanda abbia ricevuto la corona del martirio.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Elifio, pregate per noi.

*Santi Ferdinand Perez e Luigi Blanc - Martiri Mercedari (16 ottobre)

I due spagnoli San Ferdinando Perez di Castiglia e San Luigi Blanc d'Aragona, entrarono nell'Ordine della Mercede come cavalieri laici e nell'anno 1250 furono nominati redentori.
In quello stesso anno vennero inviati a redimere a Tunisi in Africa e mentre stavano navigando verso la meta furono catturati dai pirati turchi.
Spogliati dei beni per la redenzione fu imposto loro di abiurare la fede in Cristo ma rimasero costanti nel loro credo; furono torturati ed infine gettati in mare con grosse pietre legate al collo.
Raggiunsero così la corona dei martiri.
L'Ordine li festeggia il 16 ottobre.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Ferdinand Perez e Luigi Blanc, pregate per noi.

*San Fortunato di Casei - Martire (16 ottobre e III domenica di ottobre)

San Fortunato è un legionario romano, africano, originario dell’Alto Egitto al confine con la Nubia, che poco più che ventenne, nel 286, coronò la sua fede col martirio in quello che oggi è il Vallese svizzero. dal 1765 il suo corpo fu traslato a Casei Gerola, in provincia di Pavia, importante borgo della diocesi di Tortona.
Nelle valli alpine settembre regala ancora giornate luminose, che profumano d’estate l’azzurro intenso del cielo terso, e insieme annunciano gli imminenti rigori dell’inverno, che incombe nell’aria via via più frizzante. Così doveva essere anche nella tarda estate dell’anno 286 nella valle di Agaunum, dove aveva posto il campo la legione Tebea, nelle aspre gole di monti selvaggi, confine della civiltà romana e via che univa la pianura padana alla valle del Reno: in quella che per noi oggi è la Svizzera meridionale, più precisamente il Vallese e la conca di Saint Moritz.
Avvolti nella rossa clamide per difendersi dai venti autunnali e appoggiate al pilum, le sentinelle scrutavano le creste dei monti da cui avrebbero potuto scendere improvvisi e feroci i Bagaudi. Dalla
primavera dell’anno precedente infatti i Bagaudi, agricoltori e pastori immiseriti dalla voracità dei governatori, riuniti in grosse bande percorrevano le campagne incendiando, saccheggiando, distruggendo; erano guidati da Amando ed Eliano, che sognavano di costituire sotto di sé un impero celtico, avevano sconvolto le Gallie ed ora minacciavano l’Italia.
L’imperatore Diocleziano per combatterli aveva scelto fra i suoi generali uno dei più valorosi, Marco Aurelio Massimiano, illirico come lui, e lo aveva nominato “Cesare”, associandolo a sé nel governo dell’impero. Dall’Egitto era stata trasferita in fretta anche la legione Tebea, costituita da uomini valorosi, abituati a combattere per la gloria di Roma; erano i fedeli custodi dei confini meridionali dell’impero ed ora si trovavano nelle fredde terre del nord a fronteggiare barbari sanguinari. Venivano dalla valle del Nilo, erano stati arruolati nei villaggi attorno a Tebe d’Egitto, nei deserti della Nubia e giù fino alle cateratte del grande fiume e agli altipiani d’Etiopia.
Erano figli dell’Africa e ne portavano i segni caratteristici nel colore della pelle e nei tratti del volto, erano figli della grande civiltà egizia che si esprimeva in loro in nobiltà e fierezza, erano soprattutto figli della Chiesa, Cristiani di una delle terre di più antica evangelizzazione, dove il Vangelo già era risuonato in età apostolica. Maurizio era il comandante in capo, Candido, Vittore ed Essuperio erano gli alti ufficiali, Alessandro custodiva, come signifero, le insegne da battaglia della legione; tra i militi vi era anche Fortunato.
Il vento soffiava dalle cime delle Alpi, gelido e sinistro quasi fosse un presagio di morte, mentre i legionari ripensavano alle assolate distese del deserto nubiano, alle acque solenni del Nilo che scendevano a fecondare il loro paese, ai tanti volti cari lasciati al di là del mare. L’araldo giunse al campo con l’ordine di marcia, si dovevano levare le tende e partire, perché Massimiano aveva deciso di sferrare l’ultimo definitivo attacco volto a spezzare la resistenza dei ribelli, prima che le nevi dell’inverno coprissero i valichi e rendessero impraticabili i passi.
Per propiziarsi l’esito della battaglia il comandante supremo ordinava a tutte le sue legioni di offrire sacrifici agli dei di Roma, ciascuna nel proprio campo, quella sera stessa prima della partenza.
Un silenzio gravido di attesa scese su quei soldati, si guardarono uno ad uno, compagni di cento battaglie, qualcuno toccò sotto il giustacuore le cicatrici delle ferite ricevute nella difesa dell’impero; alla fine il silenzio fu rotto dalla voce del comandante: “Nessuno può dubitare in terra della nostra fedeltà a Roma e al suo imperatore: le zagaglie etiopiche e le lance numide, le spade nabatee e le asce barbariche non ci hanno mai fermato.
Nessuno deve però dubitare in Cielo della nostra fedeltà a Cristo Signore: siamo Cristiani e non sacrificheremo mai agli idoli, agli dei falsi e bugiardi, che altro non sono che demoni oscuri!”.
A quelle parole seguì un frastuono di spade che battevano sugli scudi; col consueto grido di guerra i legionari Tebei si preparavano all’ultima battaglia, quella del martirio; poi deposero le armi e attesero il carnefice. Caddero per primi gli ufficiali, poi venne l’ordine della prima decimazione, a cui seguì una seconda ed infine lo sterminio a colpi di clava dell’intera legione.
Fortunato pregava con gli occhi levati in alto, guardava l’azzurro luminoso che in quel giorno era così simile al suo cielo africano: fra poco sarebbe entrato al cospetto del suo Signore; lui, giovane legionario egiziano, avrebbe ricevuto la corona dei martiri, avrebbe stretto in pugno la palma della vittoria.
Non sappiamo come il corpo di San Fortunato venne trasferito dal luogo del martirio ad Agaunum nelle Alpi svizzere fino a Roma.
Forse lo raccolse e lo custodì un commilitone. Di certo sappiamo che fu venerato nelle catacombe
romane di San Callisto fino al 1746, quando il cardinale Guadagni, vicario di Papa Benedetto XIV per la città di Roma, ne ordinò la riesumazione e l’esposizione nella Collegiata romana di Santa Maria in Via Lata.
Da Santa Maria in Via Lata le reliquie di San Fortunato giunsero a Casei nel 1765, come dono della Santa Sede al Prevosto dell’Insigne Collegiata, ai canonici e alla comunità casellese, tramite il vescovo di Tortona mons. Giuseppe Ludovico de Anduxar.
Non deve meravigliare questo gesto, se si considera che la Parrocchia di Casei, fino al Prevosto don Bianchi agli inizi del 1900, fu di “collazione papale”, cioè il suo parroco era nominato direttamente da Roma con bolla papale e per potervi essere designato un sacerdote doveva esibire un titolo accademico in teologia conseguito presso una facoltà romana, come attesta un documento dell’archivio parrocchiale, datato 1806.
All’epoca della traslazione a Casei di San Fortunato risale la preziosa urna che custodisce le reliquie e in quell’occasione le ossa del capo frantumate (indizio del martirio avvenuto a colpi di clava, come si usava fare presso l’esercito romano in occasione delle decimazioni) vennero inserite nella sagoma in gesso del teschio, poi rivestito con l’elmo.
(Autore: Don Maurizio Ceriani – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Fortunato di Casei, pregate per noi.

*San Gallo - Eremita a Bregenz (16 ottobre)

Nato in Irlanda - Bregenz, Svizzera, 630 c.
Irlandese, discepolo di San Colombano, Gallo (Gallech) si trasferì con questi sul continente.
Vissero insieme a Luxueil e a Bregenz, sul lago di Costanza.
Qui si fermò in vita eremitica, mentre Colombano si recò in Italia, dove fondò l'abbazia di Bobbio.
Con alcuni compagni Gallo si trasferì a ovest di Bregenz nella regione della Svevia, dove morì tra il 630 e il 645.
Sulla sua tomba sorse una chiesa, primo nucleo dell'abbazia di San Gallo, intorno alla quale si sviluppò l'omonima città svizzera. (Avvenire)
Martirologio Romano: Presso Arbon nell’odierna Svizzera, San Gallo, sacerdote e monaco, che, accolto ancora fanciullo da San Colombano nel monastero di Bangor in Irlanda, propagò con dedizione il Vangelo in questa regione e insegnò ai suoi confratelli l’osservanza della regola, finché riposò quasi centenario nel Signore.
Il più antico documento su Gallo è un frammento della Vita che B. Krusch data dalla fine del sec. VIII. Il monaco Vettino compose una seconda biografia tra 1'816 e 1'824.
Valafrido Strabone scrisse, verso l'834, una terza Vita e rimaneggiò una raccolta di miracoli composta da Gozberto il Giovane, monaco di San Gallo.
Una Vita ritmica, pervenuta sotto il nome dello stesso Valafrido, è in realtà di un anonimo del sec. IX. Altri documenti posteriori non apportano niente di nuovo.
Nonostante queste Vitae, San Gallo è poco conosciuto. Scartate le leggende e ciò che è incerto, si può dire che, nato in Irlanda verso la metà del sec. VI, fu uno dei dodici discepoli di San Colombano, che lo accompagnarono nel continente.
Visse prima a Luxenil col suo maestro, poi lo seguì di nuovo nei suoi spostamenti, specialmente quando partì per l'esilio l'anno 610.
Insieme andarono fino a Bregenz, sulle rive del lago di Costanza, ma allorché Colombano dové partire per l'Italia, verso l'anno 612, si separarono e Gallo andò con qualche compagno a stabilirsi in Svevia, ad ovest di Bregenz, presso la sorgente dello Steinach, dove visse come eremita con alcuni fedeli, e dove, verosimilmente, morì in data indeterminata, fra gli anni 630 e 645.
Dopo la sua morte sulla tomba fu edificata una chiesa che, prima dell'anno 750, col nome sancti Galluni era divenuta il centro d'una abbazia, fondata da Otmaro.
Nel sec. IX essa si chiamava abbazia di San Gallo, sebbene non fosse stata da lui fondata.
Che cosa si può ricavare da tradizioni più o meno leggendarie trasmesse tramite le Vitae che conosciamo?
Gallo sarebbe stato ordinato prete per volere del suo abate prima di lasciare l'Irlanda.
In esilio a Bregenz, egli avrebbe mostrato molto zelo nel predicare alle popolazioni della regione e nel distruggere gli idoli, ciò che gli avrebbe attirato l'inimicizia dei pagani.
L'episodio più noto è la sua separazione da San Colombano: quando questi si mise in strada per l'Italia, Gallo, ammalato, sollecitò il permesso di restare.
Colombano, credendo forse che la malattia nascondesse l'attaccamento ad un luogo calmo e gradevole, rimproverò a Gallo ciò che considerava un rifiuto ad affrontare pene e fatiche e in conseguenza gli vietò di celebrare il santo sacrificio della Messa finché vivesse.
Gallo sarebbe infatti rimasto molti anni senza salire all'altare.
Avvertito miracolosamente della morte prossima di Colombano, inviò un messaggero a sollecitare l'assoluzione presso il suo maestro che si trovava in Italia. a Bobbio.
Il messaggero ritornò portando il perdono di Colombano e il suo bastone abbaziale lasciato al suo antico discepolo come pegno di riconciliazione.
Un giorno, mentre Gallo era in preghiera, un orso sarebbe venuto per cibarsi dei resti del pasto e per alimentare un magro fuoco acceso per riscaldare un ammalato.
Gallo avrebbe tolto dal piede dell'orso una spina e questo lo avrebbe aiutato a costruire il suo romitorio. Per questa ragione l'iconografia rappresenta di solito Gallo accompagnato da questo animale. Egli avrebbe anche liberato dal demonio la figlia del re di Francia, Sigeberto, che, in riconoscenza, gli avrebbe offerto una proprietà presso Arbon, sul lago di Costanza, per stabilirvi un'abbazia.
Gallo avrebbe rifiutato a due riprese il vescovato di Costanza e l'ufficio di abate di Luxeuil, ma avrebbe pronunziato, in occasione dell'intronizzazione nella cattedrale di Costanza di uno dei suoi discepoli, un discorso che si sarebbe conservato.
Sarebbe morto in Arbon, a novantacinque anni, e sarebbe stato sepolto ai piedi dell'altare del suo eremitaggio.
Come separare in tutto ciò il buon grano della storia dal loglio della leggenda?
L'abbazia, fondata cento anni dopo la morte del santo eremita, divenne custode dei suoi resti e del suo culto.
Usuardo iscrisse la festa di San Gallo, che è ancor oggi celebrata anche il 16 ottobre, al 2 febbraio, data, probabilmente, di una traslazione delle reliquie.
Il Pidoux riferisce che in questo giorno nell'abbazia di San Gallo, i sacerdoti celebravano tre Messe, come per Natale.
L'abbazia, a partire dall'854, fu esente dalla giurisdizione del vescovo di Costanza; nello stesso tempo divenne centro di irradiazione spirituale e culturale per una vasta regione, ma pur se potente e centro di un autentico principato monastico, non poté resistere alla Riforma. Nel sec. XVI le reliquie di Gallo furono bruciate quasi per intero dagli Zuigliani, padroni della città che era sorta intorno al monastero.
All'abbazia successe un vescovato nel 1823 che divenne del tutto indipendente nel 1846.
Il culto di Gallo resta vivo nell'est della Svizzera, nel sud-ovest della Germania e nell'Alsazia. Nel 1950 il vescovo di San Gallo portò a Luxeuil, con una statua offerta dagli abitanti della città svizzera, alcune reliquie di Gallo.
In Baviera, a Fussen e a Kempten, si possiedono ancora, si crede, i resti del bastone inviato da San Colombano al Santo.
In seguito ad una confusione nata tra il popolo, si invoca San Gallo come protettore dei volatili, specialmente dei gallinacei.
(Autore: Claude Boillon – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Gallo, pregate per noi.

*San Gauderico (16 ottobre)

Martirologio Romano:
Nel territorio di Mirepoix presso i Pirenei in Francia, San Gauderíco, contadino, insigne per la pietà verso la Madre di Dio.
Oltre alle manifestazioni del suo culto si sa ben poco di Gauderico (lat. Gaudericus; fr. Galderic, Gauderic, Gaudry). Sarebbe vissuto nella seconda metà del IX secolo e sarebbe morto verso il 900 nel villaggio, dove faceva il contadino, e che porta il suo nome, nella diocesi di Mirepoix, oggi di Carcassone.
Nel 1014 alcune reliquie furono date al monastero di san Martino di Canigou e trasferite nel 1783
nella cattedrale di Perpignano.
Nel XII secolo la presenza del suo corpo è ancora stata segnalata nella chiesa di San Pietro.
Il suo culto è stato in onore in qualche diocesi del mezzogiorno della Francia, dove era invocato in tempi di epidemia e di siccità.
La festa di Gauderico è celebrata il 16 o 17 ottobre e il Martyrologium Romanum lo pone al 16 ottobre.
(Autore: Gérard Mathon - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Gauderico, pregate per noi.

*Beato Gerardo da Chiaravalle - Abate (16 ottobre)

Martirologio Romano: Nel monastero di Igny nel territorio di Reims in Francia, transito del Beato Gerardo da Chiaravalle, abate, ucciso da un monaco malvagio mentre era in visita in questo cenobio.
Secondogenito di Tescelino e Aletta, Gerardo vide la luce un po’ prima del 1090, anno di nascita del terzo figlio nato da quel matrimonio, Bernardo.
Il profilo storico di Gerardo si ricava quasi per intero dal XXVI dei Sermones super Cantica Canticorum, da Bernardo dedicato quasi completamente a una rievocazione, a tratti fine e commossa, del fratello defunto. Per lunghi anni cellerario di Chiaravalle, Gerardo, vicino a morire, dichiarò di avere accettato quell’ufficio, rinunciando alle sue inclinazioni contemplative, solo per ubbidienza e per amore al fratello abate, del quale aveva protetto, con intelligente e fedele custodia, la quiete nella preghiera, nello studio e nel governo della comunità.
Gerardo aveva attitudine ad ogni sorta di opere manuali, ma altresì possedeva, per quanto illetterato, raro discernimento e penetrazione nelle cose spirituali. Bernardo, che lo presenta come suo fido consigliere in ogni campo, riconosce in lui perfetta armonia tra le attitudini pratiche e le virtù claustrali e contemplative.
Il cellerario si era gravemente ammalato, a Viterbo, l’anno precedente la morte: la breve Vita di Gerardo dice che ciò accadde durante il terzo viaggio di Bernardo in Italia: siamo dunque nel 1137, molto probabilmente nel marzo-aprile, periodo nel quale la curia papale fece sosta nella cittadina laziale. Al soggiorno italiano del 1137-38, che coincise con la definitiva rovina di Anacleto II, induce, del resto, a pensare anche il tono di gioia e di vittoria, con cui Bernardo, nel citato Sermo XXVI, parla dell’esito del suo viaggio, nel corso del quale colloca l’infermità contratta dal fratello a Viterbo. Rientrato a Chiaravalle, Gerardo si ammala di nuovo e muore con esemplare serenità, assistito da Bernardo. Accettato il 1137 per la malattia sofferta nell’anno precedente la morte, il 13 giugno o il 13 ottobre, indicati dalla tradizione come giorni del trapasso di Gerardo, cadono necessariamente nel 1138. I resti mortali di Gerardo e dei congiunti furono più tardi raccolti in una sola sepoltura, a Chiaravalle.
L’unica notizia di qualche importanza è fornita dalla Vita prima di San Bernardo: di tutti i fratelli, Gerardo, dedito alle armi, sarebbe stato il più renitente a seguire Bernardo nel chiostro.
Catturato in combattimento fu trattenuto in prigionia, ma un miracolo intervenne a liberarlo, permettendogli di raggiungere i congiunti nella solitudine. Per il culto, data tradizionale della festa nell’Ordine era il 13 giugno, indicato dai martirologi cistercensi come il giorno della morte. Il culto era già stato confermato, nel 1702, da Clemente XI. Rispettivamente nel 1869 e nel 1871, furono approvati, per l’Ordine Cistercense, l’Ufficio e la Messa, e la festa venne fissata al 30 gennaio.
Il Martyrologium Romanum pone la data del culto al 16 ottobre.
(Autore: Pietro Zerbi - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Gerardo da Chiaravalle, pregate per noi.

*San Gerardo Maiella - Religioso Redentorista (16 ottobre)

Muro Lucano, Potenza, 1726 - Conv. di Materdomini presso Caposele, Avellino, 16 ottobre 1755
Nato presso Potenza nel 1726, morì nel 1755. Di famiglia povera, tentò invano di diventare Cappuccino, come uno zio materno. Fece il noviziato nei Redentoristi sotto la guida di Paolo Cafaro ed emise i voti come fratello coadiutore, svolgendo poi nel convento le mansioni più umili.
Incaricato di organizzare pubbliche collette, ne approfittava per fare opera di conversione, per mettere pace e per richiamare al fervore religioso altri monasteri. Calunniato da una donna e, per la sua anima semplice incapace di difendersi, soffrì molto.
Trasferito nella vallata del Sele, svolse in paesini isolati una grande opera di apostolato, comunicando a coloro che l'avvicinavano la sua ricchezza spirituale. Fin da giovanissimo, si erano rivelati in lui slanci mistici che lo portavano all'unione con Dio e, come ogni contemplativo, amava la natura e il bello.
Patronato: Cognati
Etimologia: Gerardo = valoroso con la lancia, dal tedesco
Martirologio Romano: A Materdomini in Campania, San Gerardo Majella, religioso della Congregazione del Santissimo Redentore, che, rapito da un intenso amore per Dio, abbracciò ovunque si trovasse un austero tenore di vita e, consumato dal suo fervore per Dio e per le anime, si addormentò piamente ancora in giovane età.
Il cognome Maiella o Majella è un'abbreviazione della forma originaria Machiella o Macchiella, secondo la grafia desunta dagli Atti parrocchiali di Baragiano (Potenza) donde proveniva la famiglia.
Umanamente parlando non è un granché: di costituzione gracile, di salute cagionevole, di istruzione scarsa. Anche perché ha dovuto iniziare a lavorare presto per mantenere la famiglia, visto che papà muore quando lui è ancora un bambino, senza aver avuto il tempo di insegnargli il suo mestiere di sarto. Finisce così, come apprendista, in casa di un sarto esperto, dove colleziona ingiurie e
percosse, ma il ragazzino non si scompone più di tanto, perché sta imparando ad accettare tutto per “amor di Dio”.
Quando potrebbe mettersi in proprio, decide invece di andare a fare il domestico nella casa del vescovo di Lacedonia: non è un posto molto ambito, perché il vescovo è prepotente, esigente e autoritario.
Quelli che l’hanno preceduto hanno resistito in quell’incarico al massimo tre settimane, lui vi resta per tre anni, cioè fino alla morte del vescovo, ed è forse l’unico a piangerlo sinceramente, perché è riuscito a scoprire i buoni sentimenti del padrone anche sotto la scorza di uomo burbero e insopportabile.
Tornato al paese, Muro Lucano, apre bottega, ma neanche come sarto è un granché: prega più volentieri di quanto non sappia tagliare e cucire, è sempre incollato al tabernacolo o assorto in meditazione, più alla ricerca della volontà di Dio che attento alle esigenze dei clienti. La sua diventa la bottega del “sarto fai da te”, che non riesce a mettere un soldo da parte perché, quando si fa pagare, dopo aver comprato quello che serve alla mamma e alle sorelle, il suo denaro va a finire nelle tasche dei poveri o nella celebrazione di messe per i defunti.
Pensa seriamente di farsi religioso, ma la cosa è più facile a dirsi che a farsi: i Cappuccini gli dicono subito di no e anche con i Redentoristi le cose non vanno meglio: venuti in paese a predicare una missione, sono subito assediati e perseguitati da quel giovane che vuole diventare come loro e che essi non vogliono, perché oltre alla gracilità, che si vede ad occhio nudo, tutti lo descrivono come un po’ eccentrico, senza arte né parte, un buono a nulla, insomma.
E così consigliano alla mamma di chiuderlo in camera, perché al momento della partenza non corra loro dietro. Il consiglio viene eseguito alla lettera, ma al mattino la mamma, nella stanza da letto, trova soltanto un foglio con poche, semplici parole: “Vado a farmi santo”. Annodando le lenzuola, infatti, il ragazzo è riuscito a calarsi dalla finestra: un’evasione in piena regola, un caso degno di “Chi l’ha visto”, se non fosse che di questa fuga si conoscono il motivo e la destinazione: raggiunti i missionari dopo dodici miglia, è riuscito, vista l’insistenza, a farsi accettare.
Lo mandano come “Fratello inutile” in vari conventi redentoristi, dove fa di tutto: il giardiniere, il sacrestano, il portinaio, il cuoco, l’addetto alla pulizia della stalla e in tutte queste umili semplicissime mansioni l’ex ragazzo “inutile” si esercita a cercare la volontà di Dio.
Ubbidientissimo, mortificato, devoto, semina amore e concordia mentre fa la questua. Ai poveri distribuisce tutto, anche i suoi pochi effetti personali. Nei semplici gesti che compie c’è del prodigioso e la gente grida al miracolo, che fiorisce al suo passaggio.
Un giorno viene accusato di una relazione per lo meno sospetta con una ragazza: non si discolpa e non si giustifica, preferendo che la verità venga a galla da sola e cercando anche in questa prova dolorosa di fare la volontà di Dio. Sarà infatti discolpato proprio da chi l’aveva calunniato, mentre tutti ammirano il suo eroismo, la sua pazienza e la sua sopportazione. Un bel giorno è colpito dalla tubercolosi e deve mettersi a letto; sulla porta della sua cella ha fatto scrivere; “Qui si fa la volontà di Dio, come vuole Dio e fino a quando vuole Dio”.
Muore nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1755: ha soltanto 29 anni, dei quali appena tre passati in convento durante i quali ha fatto passi da gigante verso la santità.
Beatificato da Leone XIII nel 1893, Gerardo Majella è stato proclamato santo da Pio X nel 1904. da allora è uno dei santi più venerati del nostro Meridione, si continua a ricorrere alla sua intercessione e, in particolare, è conosciuto come il “santo dei parti felici” per la particolare protezione che molte mamme hanno sperimentato durante la gravidanza e al momento del parto.
(Autore: Gianpiero Pettiti)
Gli dicono tutti di no. Cappuccini e Redentoristi non possono accoglierlo perché sta poco bene. Suo
padre comincia a insegnargli il mestiere di sarto, ma muore troppo presto. Gerardo va al lavoro da un altro sarto di Muro Lucano, e più tardi si metterà in proprio, ma dovrà chiudere bottega. Torna a insistere con i Redentoristi, guidati dal loro fondatore Alfonso de’ Liguori, e infine la spunta. Ma ha già 26 anni quando può pronunciare i voti nel convento di Deliceto (Foggia) col rango di fratello coadiutore, subordinato. Ma a lui va benissimo.
Uscendo poi dal convento per questue e altre incombenze, s’immerge nella vita di paesi, persone, famiglie mortificate dalla miseria e dall’ignoranza, soggette ai signori, alle epidemie e alle crisi dei raccolti. Ne adotta lo stato d’animo, possiamo dire: ma lo arricchisce di fiducia.
Non è certo un riformatore sociale: i grandi problemi gli sfuggono. Ma vede le persone, la loro sofferenza, e anche quella dei loro animali. S’ingegna, per esempio, di curare i muli, umilissimi strumenti di comunicazione nelle campagne che spesso sono anche senza strade. Accorre dove c’è un malato, dove sta nascendo un bambino.
Hanno una grande fiducia in lui anche le partorienti, e questo stato d’animo diventerà poi devozione affettuosa e duratura. Nell’animo popolare la figura sempre amica di fra Gerardo lascia segni che dureranno nelle generazioni fino a noi, come testimoniano feste e pellegrinaggi in suo onore.
Ma ecco arrivargli una prova inaspettata. Una lettera gli attribuisce relazioni almeno sospette con una ragazza, e lo stesso Alfonso de’ Liguori sembra crederci. Allora, indagini, interrogatori, spostamenti vigilati da un convento all’altro, divieto di fare la comunione... Lui potrebbe ampiamente
discolparsi: ma non ci pensa neppure.
Non dice una sola parola. Lascia che dicano e facciano gli altri, prendendo tutto come una prova voluta per lui da Chi può discolparlo se e quando vorrà.
Ed ecco infatti che l’accusa crolla, senza che lui abbia aperto bocca. E con questo silenzio mite e vittorioso l’umile fratello coadiutore “tiene lezione”: ammaestra tutta la comunità.
I confratelli scoprono di avere in casa un santo, e gli chiedono di mettere in scritto per loro il “regolamento di vita” che si è dato. Nel 1755 mentre è al convento di Materdomini presso Caposele, molte famiglie sono alla fame per il maltempo, e lui interviene organizzando la distribuzione di viveri.
Una prova di capacità organizzativa, che fa poi nascere voci di miracolo, come è già accaduto altre volte.
Nello stesso anno, Gerardo è colpito dalla malaria durante una questua. E dopo un breve miglioramento si spegne a Materdomini, a soli 29 anni d’età. Subito le popolazioni dell’Irpinia, della Basilicata e della Puglia lo considerano Santo. E San Pio X lo canonizzerà nel 1904.

(Autore: Domenico Agasso - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Gerardo Maiella, pregate per noi.

*Santa Gerburga - Badessa di Nottuln (16 ottobre)

VIII sec.
Santa Gerburga (Heriburg) è la prima badessa del convento di Nottuln presso Münster in Westfalia, vissuta nell’VIII secolo.
Non sappiamo nulla di Santa Gerburga, Il suo nome è rimasto solo negli annali del monastero.
La comunità religiosa di clausura per donne fu fondata, da San Ludgero vescovo, uno degli apostoli della Sassonia, fratello proprio di Gerburga.
La sua festa è stata fissata nel giorno 16 ottobre.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santa Gerburga, pregate per noi.

*Santi Grato e Assunto - Eremiti e Martiri (16 ottobre)

Grato e Assunto sono due Santi Martiri di Capdenac, nella regione dell’Occitania.
Su di loro esiste una leggenda che indica San Grato proveniente da Roma e che fosse diventato un eremita insieme a San Assunto, prima che i due venissero massacrati dai pagani.
Di loro non sappiamo nulla.
E’ certo che San Grato e Sant’Assunto godevano, di un certo culto nel sec. XII, nelle diocesi di Rodez e Albi, oggi, diocesi suffraganee di Tolosa.
Altri santi omonimi sono festeggiati in altre località.
San Grato e Sant’Assunto sono festeggiati nel giorno 16 ottobre.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santi Grato e Assunto, pregate per noi.

*Beato Józef Jankowski - Sacerdote Pallottino, Martire (16 ottobre)

Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati 108 Martiri Polacchi" - Senza data (Celebrazioni singole)

Czyczkowy, Polonia, 17 novembre 1910 – Auschwitz, Polonia, 16 ottobre 1941
Józef Jankowski fu un sacerdote polacco, membro della Società dell’Apostolato Cattolico, ossia dei padri Pallottini.
Esercitò il ministero rivolgendosi in particolare ai bambini e ai giovani. Durante i primi tempi dell’occupazione nazista della Polonia non cessò di insegnare e vivere l’umiltà che lui stesso professava. Arrestato dalla Gestapo, venne condotto al carcere di Pawiak e poi ad Auschwitz, dove morì a causa delle percosse subite da una guardia il 16 ottobre 1941, un mese prima di compiere trentun anni.
Incluso nel gruppo dei 108 martiri polacchi della seconda guerra mondiale insieme al cappuccino padre Aniceto Koplinski, che nello stesso luogo e nello stesso giorno subì un diverso martirio, è stato beatificato da san Giovanni Paolo II a Varsavia il 13 giugno 1999.
Martirologio Romano: Vicino a Cracovia in Polonia, nel campo di sterminio di Auschwitz, beati Aniceto Koplinski, dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, e Giuseppe Jankowski, della Società dell’Apostolato Cattolico, sacerdoti e martiri, che, durante l’occupazione militare della patria da parte dei seguaci di un’empia dottrina ostile agli uomini e alla fede, testimoniarono fino alla morte la fede in Cristo, l’uno ucciso in una camera a gas, l’altro dalle guardie del campo.
Józef Jankowski nacque il 17 novembre 1910 a Czyczkowy, nel voivodato della Pomerania, nella Polonia del nord; era il secondo degli otto figli di Robert e Michalina Jankowski.
Fin dall’infanzia si distinse per religiosità, amore alla preghiera e sensibilità verso i bisogni del prossimo. Avvertita la chiamata al sacerdozio, nell’anno scolastico 1924/1925 iniziò a frequentare il ginnasio a Suchary, tenuto dai padri della Società dell’Apostolato Cattolico, fondata da san Vincenzo Pallotti (perciò detti Pallottini).
Nel 1929 entrò a pieno titolo nella Società. Il 5 agosto 1931 emise le promesse temporanee a Wadowice, presso il Collegium Marianum. Venne ordinato sacerdote il 2 agosto 1936 a Suchary, per le mani dell’arcivescovo di Gniezno, Antoni Laubitz. Un anno prima scrisse a uno dei suoi fratelli: «Il mio ideale, naturalmente, deve abbracciare Iddio, il prossimo e me stesso... e di questo movente principale è l’amor di Dio... Desidero amare Dio più della mia vita».
Esercitò le funzioni ordinarie del suo ministero in pieno accordo con quanto la sua regola insegnava. Fu cappellano e catechista nelle scuole di Ołtarzew e della zona circostante, responsabile della Crociata Eucaristica e segretario del comitato per l’aiuto dei bambini. Nei primi giorni della seconda guerra mondiale e dell’occupazione tedesca restò a Ołtarzew, prestando aiuto spirituale e materiale alla popolazione del luogo, anche a rischio della vita. Nel frattempo, divenne anche tesoriere del Seminario e, il 31 marzo 1941, fu eletto maestro dei novizi.
Come confessore e direttore spirituale era molto ricercato, ma allo stesso tempo compiva un attento lavoro su se stesso, cercando di liberarsi dall’amor proprio: «Voglio lottare per una grande santità e per amare Dio sopra ogni cosa, ma allo stesso tempo voglio essere dimenticato».
La sua passione più grande erano i bambini e i giovani, che cercava di condurre sulla via della santità, alla scuola di Santa Teresa di Gesù Bambino, che ebbe una profonda influenza sulla sua vita interiore. Seguendo gli insegnamenti del suo Fondatore, non ricercò mai una vita mediocre, nutrendo
un’intensa devozione per Gesù Eucaristia e per la Madonna, che i Pallottini venerano in maniera speciale come Regina degli Apostoli.
Ecco come l’invocava in una preghiera trovata tra i suoi scritti personali: «Maria, Vergine Santissima, Regina degli Apostoli, Madre mia amatissima, desidero amarti... Tu sei Madre del Divino Amore. Riempi il mio cuore d’amore di Dio. Riempimi dello Spirito Santo, come hai riempito il nostro Padre e Fondatore... Confido che mi affiderai molte, molte anime. Sia distrutta la vita mia perché domini nel mondo il Tuo Regno, perché domini nel mondo il Regno di Cristo, Tuo Figlio dilettissimo».
Il 16 maggio 1941 don Józef, sacerdote da cinque anni, venne arrestato dalla Gestapo e condotto al carcere di Pawiak presso Varsavia, da cui, dopo due settimane di crudeli torture, fu trasportato al campo di sterminio di Auschwitz. Registrato come detenuto numero 16895, sopportò con dignità e serenità per cinque mesi persecuzioni, umiliazioni e angoscia.
Il 16 ottobre 1941, infine, fu torturato dal kapò Krott, famigerato per le sue bestialità, e poi condotto a morire nel reparto ammalati. Un testimone oculare don Konrad Szweda, riferì nel corso del processo di beatificazione: «Mezzo ammazzato dal sanguinario Krott, kapò del commando di lavoro “Babice”, fu ricoverato all’ospedale del campo. Il giorno dopo andai a trovarlo, ma era già morto, non so se in seguito alle percosse o a un’iniezione letale, pra¬ticata regolarmente ad Auschwitz». Il suo corpo fu gettato nel forno crematorio. Gli mancava un mese per compiere trentun anni.
Nella stessa data e nello stesso luogo morì il sacerdote cappuccino Aniceto (al secolo Wojciech) Koplinski, fatto entrare in una fossa con altri detenuti e ricoperto di calce viva.
La fama di martirio di don Józef, sorta subito dopo la sua morte, si rafforzò sempre di più sia tra i Pallottini, sia tra gli ex-prigionieri del campo di Auschwitz, sia largamente tra i fedeli, che, guardando al suo ministe¬ro caritativo-pastorale, lo stimavano un Santo. Espressione di tale fama sono le numerose rela¬zioni e i ricordi scritti da testimoni oculari, le celebrazioni delle ricorrenze della sua morte e le numerose pubblicazioni su di lui.
Incluso nel gruppo dei 108 martiri polacchi della seconda guerra mondiale, dei quali fa parte anche il già citato padre Aniceto Koplinski, è stato beatificato da San Giovanni Paolo II a Varsavia il 13 giugno 1999.
Il 16 ottobre 2011 è stata benedetta dal vescovo della diocesi di Pelplin, Jan Bernard Szlaga, una chiesa intitolata a lui presso Męcikał, in Polonia. È stato inoltre proclamato patrono della parrocchia di Oltarzew e del vicariato foraneo di Laski, come anche di due città (Brusy e Ożarów Mazowiecki) con relative frazioni e di una scuola a Czyczkowy, il suo paese natale. Alla sua intercessione vengono infine attribuite diverse grazie.

(Autore: Emilia Flocchini e don Jan Korycki, SAC - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beato Józef Jankowski, pregate per noi.

*San Longino - Martire (16 ottobre)

Soldato romano che con la sua lancia trafisse il costato di Gesù Crocifisso. Secondo la tradizione, la linfa che defluì dal fianco divino lo guarì da un'infermità oculare e lo convertì.
Etimologia: Longino = alto, lungo, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Gerusalemme, commemorazione di san Longino, venerato come il soldato che aprì con la lancia il costato del Signore crocifisso.
Si tratta di un santo di cui molto si è parlato e scritto in tutti i sinassari orientali, nei Vangeli, epistole dei Santi Padri, vangeli apocrifi e martirologi sia orientali che occidentali. Tutta questa massa di citazioni ha determinato la combinazione di tre diversi personaggi in cui viene identificato.
Nel primo caso si tratta di un soldato che con un colpo di lancia squarciò il costato di Cristo sulla croce, il suo nome deriverebbe appunto dalla lancia; nel secondo caso è identificato con il centurione che era presente alla morte di Gesù e che commosso da ciò che vede, ne afferma la divinità, unica voce favorevole in un coro d’insulti e scherni; nel terzo caso Longino sarebbe il centurione che comandava il picchetto di soldati messo a guardia del sepolcro del crocifisso che comunque secondo alcuni testi, sarebbero gli stessi che avevano presenziato alla crocifissione.
La tradizione orientale celebra Longino come il centurione che riconobbe la divinità di Gesù e ne custodì il sepolcro; quella occidentale lo celebra sia come il soldato del colpo di lancia, sia come il
centurione che afferma la divinità sotto la croce.
Ambedue le tradizioni dicono che Longino abbandona la milizia, viene istruito nella fede dagli apostoli e se ne va a Cesarea di Cappadocia dove conduce una vita di santità, prodigandosi per la conversione dei gentili, ed infine subisce il martirio morendo decapitato.
Tuttavia la passio del martire diventa ancora diversa fra le due tradizioni: in quella latina egli è un soldato isaurico che viene arrestato e processato dal preside di Cesarea di Cappadocia, Ottavio che a sua volta si converte come pure il suo segretario Afrodisio che subisce anch’egli il martirio; in quella greca egli è nativo di Cesarea dove infatti si ritira in un possedimento paterno, poi sobillato dai giudei, Ponzio Pilato lo accusa all’imperatore come disertore e lo fa uccidere da due sicari, la testa del martire viene portata a Gerusalemme e mostrata a Pilato e poi gettata nell’immondizia, in seguito viene recuperata da una vedova miracolosamente guarita dalla cecità.
Un antichissimo testo letterario, il primo che parla di Longino, cioè l’Ep. XVII, 15 di San Gregorio Nisseno (m. 394 ca.) riporta fra l’altro che già nel secolo IV, Longino era considerato l’evangelizzatore della Cappadocia come gli Apostoli singolarmente lo erano di altre regioni.
È incredibile il numero dei giorni del calendario in cui viene ricordato, i vari martirologi, sinassari, calendari orientali, codici ecc. lo ricordano in giorni diversi nei mesi di marzo, ottobre, novembre ed altri.
Il Martirologio Romano seguendo quello Geronimiano lo celebra il 15 marzo mentre gli orientali, anche in questo divisi, in massima parte lo celebrano il 16 ottobre.
Gli artisti in ogni tempo sono stati attratti dalla singolarità del personaggio e abbinandolo alla scena della crocifissione con lancia o senza lancia, l’hanno immortalato nelle loro opere; è importante ricordare che nella grande basilica di San Pietro, alla base di uno dei quattro enormi piloni che sorreggono l’immensa cupola e che circondano lo spazio dell’altare con il baldacchino del Bernini, vi è la grande statua di San Longino, dello stesso Bernini, centurione che per primo riconobbe la divinità di Cristo.
Nella diocesi di Mantova la sua memoria si celebra il 15 marzo.

(Autore: Antonio Borrelli - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Longino, pregate per noi.

*San Lullo di Magonza - Vescovo (16 ottobre)

710 – 786
Martirologio Romano: Nel monastero di Heresfeld nella Franconia in Germania, san Lullo, vescovo di Magonza, che, compagno e collaboratore di san Bonifacio nella predicazione, fu da lui ordinato vescovo, perché fosse per i sacerdoti una guida, per i monaci un maestro della regola e per il popolo cristiano un predicatore e pastore fedele.
San Lull nacque nel Wessex, regione inglese, nel 710 e si fece monaco a Malmesbury, prima di raggiungere suo cugino San Bonifacio per collaborare con lui all’evangelizzazione della Germania. Questi lo ordinò sacerdote e lo inviò a Roma per consultare l’opinione del papa Zaccaria. Al suo ritorno, Lull fu consacrato vescovo e nel 754 succedette a Bonifacio, partito per la Frisia, alla cattedrale episcopale di Magonza.
Ma l’anno seguente il cugino morì martire e gli toccò seppellirlo nell’abbazia di Fulda, nei pressi di Magonza, della quale lui stesso era stato il fondatore.
L’episcopato di Lull fu turbato da lunghe dispute con San Sturmio, abate di Fulda, circa la dipendenza dell’abbazia dalla diocesi. Questi fu rimoso dal vescovo e sostituito, ma poi reisediato per intervento del re Pipino.
Lull si dimostrò sempre pastore energico, reggendo la Chiesa di Magonza con grande zelo, fondando i monasteri di Hersfeld e Bleidenstadt, partecipando a vari concili nei paesi vicini. Grande attenzione
prestò alla formazione del clero, provvedendo a tal scopo a farsi inviare libri dall’Inghilterra e da altri paesi.
Ebbe occasione di scrivere al suo primo superiore, Dealwine, chiedendogli alcuni scritti di Sant’Aldelmo per consolarsi dell’esilio e preghiere per sé: “Scongiuro con profonde suppliche la clemenza di vostra Grazia, affinché vi degniate di sostenere la barca della mia piccolezza con le vostre gentili preghiere, cosicché, protetto dallo scudo della vostra intercessione, possa meritare di raggiungere il porto della salvezza e ottenere il perdono dei miei peccati in questa prigione terrestre”.
Scrivendo invece all’arcivescovo di York elencò alcuni dei problemi riscontrati nella vita missionaria: “In verità, per amore del nome di Cristo, conviene che noi ci vantiamo degli insulti, delle tribolazioni e dell’esaltazione della sua Chiesa, che ogni giorno è colpita, oppressa e tormentata.
Mi permetto di importunare vostra Eccelenza con quest’umile preghiera, che continuiate a intercedere per la salvezza della mia anima. Perchè sono condotto dalla crescente malattia del corpo e dall’affanno della mente a lasciare questa vita miserabile e pericolosissima, per rendere conto al Giudice fedele e severo”.
L’epistolario di Lull offre nel complesso il ritratto di un vescovo santo, attento ed impegnato nel suo ministero, fedele al diritto canonico, alla recita dell’Ufficio, alla celebrazione eucaristica ed alla pratica del digiuno. Nel 781 ricevette il pallio arcivescovile, segno che Magonza era tornata al rango di sede metropolitana. Si conserva la professione di fedeltà al papa che egli pronunziò in tale occasione, unica del genere rimasta dell’VIII secolo.
Verso la fine della sua vita si ritirò nel monastero di Hersfeld, ove morì nel 786. Il suo culto fu molto popolare in Germania, ma non nella sua terra di origine.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Lullo di Magonza, pregate per noi.

*Beata Lutgarda di Wittichen - Badessa (16 ottobre)

Schenkenzell, Kinzigtal (Selva nera), 1291 - Wittichen, 1348
Nata nel 1291 presso Schenkenzell nel Kinzigtal (Selva nera) da una famiglia di contadini, a due anni, colpita da una deformazione fisica, s'associò alle beghine di Oberwolfach.
Dopo vent'anni di vita povera e mortificata, su ispirazione divina, Lutgarda eresse un convento per trentaquattro religiose secondo la regola di San Francesco, per la cui fondazione ella stessa raccolse i fondi necessari questuando; ben presto la comunità ospitò settanta membri.
Dopo l'incendio del monastero (1327) Lutgarda si mise all'opera per ricostruirlo chiedendo aiuti anche in Alsazia, in Svizzera e da Agnese d'Ungheria a Kónigsfelden.
Ottenne ad Avignone (1332) la conferma della sua Comunità regolare del Terz'Ordine, trasformata poi (1376) in monastero di Clarisse e secolarizzata nel 1803.
Lutgarda si distinse nella meditazione della vita e della passione del Signore e nella preghiera per la
Chiesa in seguito ai contrasti dei Papi d'Avignone con Ludovico il Bavaro e per la Chiesa si offerse quale vittima d'espiazione.
Devotissima al Sacro Cuore e zelante per il sollievo delle anime purganti, Lutgarda raccomandò queste pratiche religiose alle sue suore.
"Assidua nel pregare per la conversione dei peccatori, un giorno vide l'immagine del Crocifisso grondante sangue da tutte le ferite, e poi molta gente rifugiarsi nel Cuore di lui".
Nell'estrema povertà del convento, Lutgarda con le sue suore godette di gioia soprannaturale.
Morta nel 1348 fu sepolta nella chiesa, già conventuale, ora parrocchiale, di Wittichen. Ancora oggi numerosi pellegrini visitano la sua tomba specialmente il 16 ottobre, giorno della festa. Il culto non è confermato.

(Autore: Angelo Walz - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beata Lutgarda di Wittichen, pregate per noi.

*Santa Margherita Maria Alacoque - Vergine (16 ottobre e 17 ottobre)
Verosvres, Autun, Francia, 1647 - Paray-le-Monial, 17 ottobre 1690

Nata in Borgogna nel 1647, Margherita ebbe una giovinezza difficile, soprattutto perché dovette vincere la resistenza dei genitori per entrare, a ventiquattro anni, nell'Ordine della Visitazione, fondato da San Francesco di Sales.
Margherita, diventata suor Maria, restò vent'anni tra le Visitandine, e fin dall'inizio si offrì «vittima al Cuore di Gesù».
Fu incompresa dalle consorelle, malgiudicata dai superiori.
Anche i direttori spirituali dapprima diffidarono di lei, giudicandola una fanatica visionaria.
Il Beato Claudio La Colombière divenne preziosa guida della mistica suora della Visitazione, ordinandole di narrare, nell'autobiografia, le sue esperienze ascetiche.
Per ispirazione della santa, nacque la festa del Sacro Cuore, ed ebbe origine la pratica dei primi Nove Venerdì del mese. Morì il 17 ottobre 1690. (Avvenire)
Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino
Emblema: Giglio
Martirologio Romano: Santa Margherita Maria Alacoque, vergine, che, entrata tra le monache dell’Ordine della Visitazione della Beata Maria, corse in modo mirabile lungo la via della perfezione; dotata di mistici doni e particolarmente devota al Sacratissimo Cuore di Gesù, fece molto per promuoverne il culto nella Chiesa.
A Paray-le-Monial nei pressi di Autun in Francia, il 17 ottobre, si addormentò nel Signore.
(17 ottobre: A Paray-le-Monial nel territorio di Autun in Francia, transito di santa Margherita Maria Alacoque, vergine, la cui memoria si celebra il giorno precedente a questo).
La memoria di Santa Margherita Maria Alacoque, francese, è legata alla diffusione della devozione del Sacro Cuore, una devozione tipica dei tempi moderni, e promossa infatti soltanto tre secoli fa,
quando soffiò sulla Francia il vento gelido del Giansenismo, foriero della tormenta dell'Illuminismo.
All'origine della devozione al Cuore di Gesù si trovano due grandi Santi: Giovanni Eudes e Margherita Maria Alacoque.
Del primo abbiamo già parlato il 19 agosto.
Dicendo come questo moschettiere dell'amore di Gesù e Maria fosse il primo e più fervido propagatore del nuovo culto.
Santa Margherita Maria Alacoque, da parte sua, fu colei che rivelò in tutta la loro mirabile profondità i doni d'amore dei cuore di Gesù, traendone grazie strepitose per la propria santità, e la promessa che i soprannaturali carismi sarebbero stati estesi a tutti i devoti del Sacro Cuore.
Nata in Borgogna nel 1647, Margherita ebbe una giovinezza difficile, soprattutto perché non le fu facile sottrarsi all'affetto dei genitori, e alle loro ambizioni mondane per la figlia, ed entrare, a ventiquattro anni, nell'Ordine della Visitazione, fondato da San Francesco di Sales.
Margherita, diventata suor Maria, restò vent'anni tra le Visitandine, e fin dall'inizio si offrì" vittima al Cuore di Gesù".
In cambio ricevette grazie straordinarie, come fuor dell'ordinario furono le sue continue penitenze e mortificazioni sopportate con dolorosa gioia. Fu incompresa dalle consorelle, malgiudicata dai Superiori.
Anche i direttori spirituali dapprima diffidarono di lei, giudicandola una fanatica visionaria. "Ha bisogno di minestra", dicevano, non per scherno, ma per troppo umana prudenza.
Ci voleva un Santo, per avvertire il rombo della santità.
E fu il Beato Claudio La Colombière, che divenne preziosa e autorevole guida della mistica suora della Visitazione, ordinandole di narrare, nella Autobiografia, le sue esperienze ascetiche, rendendo pubbliche le rivelazioni da lei avute.
"Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini", le venne detto un giorno, nel rapimento di una visione.
Una frase restata quale luminoso motto della devozione al Sacro Cuore.
E poi, le promesse: "Il mio cuore si dilaterà per spandere con abbondanza i frutti del suo amore su quelli che mi onorano". E ancora:" I preziosi tesori che a te discopro, contengono le grazie santificanti per trarre gli uomini dall'abisso di perdizione ".
Per ispirazione della Santa, nacque così la festa del Sacro Cuore, ed ebbe origine la pratica pia dei primi Nove Venerdì del mese.
Vinta la diffidenza, abbattuta l'ostilità, scossa la indifferenza, si diffuse nel mondo la devozione a quel Cuore che a Santa Margherita Alacoque era apparso " su di un trono di fiamme, raggiante come sole, con la piaga adorabile, circondato di spine e sormontato da una croce". É l'immagine che appare ancora in tante case, e che ancora protegge, in tutto il mondo, le famiglie cristiane.
(Autore: Piero Bargellini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santa Margherita Maria Alacoque, pregate per noi.

*Santi Martiniano, Saturiano e Massima - Martiri (16 ottobre)

V sec.
Martirologio Romano:
Commemorazione dei santi Martiniano e Saturiano, martiri in Africa, insieme a due loro fratelli, che, al tempo della persecuzione vandalica perpetrata sotto il re ariano Genserico, schiavi di un vandalo, erano stati convertiti alla fede in Cristo da santa Massima, vergine, loro compagna di schiavitù, e, dopo essere stati percossi con grossi bastoni e lacerati fino all’osso per la loro fermezza nella retta fede, vennero infine relegati in esilio tra i Mori, dove furono condannati a morte per aver condotto alcuni alla fede in Cristo; Massima, invece, liberata dopo aver superato molti combattimenti, si addormentò santamente in un monastero, dove era divenuta madre di molte vergini.
Santi Martiniano, Saturiano, due loro fratelli e Massima, martiri
Quando Vittore di Vita iniziò la sua storia della persecuzione vandalica (488), Massima era ancora in vita. Da lei quindi poté apprendere i dettagli del martirio di quattro fratelli che un ricco proprietario vandalo possedeva fra i suoi numerosi schiavi. Anche Massima, virtuosa e di bella presenza, era una schiava del ricco vandalo il quale stabili di darla in moglie a Martiniano, un giovane che si era distinto come fabbricatore d’armi.
Se il giovane fu lieto della scelta, non così Massima giacché aveva fatto voto di verginità. Le nozze furono celebrate egualmente, ma nella prima notte di matrimonio la giovane donna disse al marito: «Christo ego, o Martiniane frater, membra mei corporis dedicavi, nec possum humanum sortiri coniugium, habens iam caelestem et veruni sponsum». Martiniano accettò subito la vita di perfetta castità, anzi spinse gli altri tre fratelli a fare altrettanto.
Nella Storia di Vittore, oltre a quello di Martiniano, è indicato solo il nome di Saturiano, mentre s’ignora quello degli altri due. L’episodio di Massima, che invita il marito a vivere castamente, sarà sfruttato ampiamente dall’agiografia posteriore.
Per poter meglio dedicarsi alla vita ascetica i quattro giovani e Massima decisero di fuggire; gli uomini si ritirarono nel monastero di Thabraca (località fra Bona e Biserta, oggi Tabarka) e Massima in un monastero femminile. Il padrone riuscì però a ritrovarli; li fece imprigionare con l’intenzione di costringerli a convertirsi all’arianesimo.
Lo stesso re Genserico, informato del fatto, ordinò di torturarli con bastoni acuminati fino a quando non avessero deciso l’adesione all’arianesimo. I cinque subirono pertanto lesioni ossee e mutilazioni nella carne; ma per intervento prodigioso furono ritrovati perfettamente integri. Ciò fu confermato da altri cristiani che ebbero occasione di visitarli nelle carceri.
Il ricco vandalo non si diede per vinto, anche se numerose disgrazie lo colpirono, come la morte dei figli e danni nella proprietà. Morto lui, la moglie offrì questi servi ad un parente del re, Sersaon, che dopo una buona accoglienza non volle più tenerli con sé.
Dal re Genserico i quattro fratelli furono inviati al re dei Mori, Capso, mentre Massima, ottenuta la libertà, si ritirò in un monastero di cui divenne badessa. Intanto i quattro fratelli nella regione di Caprapicta, ove il Cristianesimo era ancora sconosciuto, operarono numerose conversioni, per cui attraverso persone fidate, chiesero a Roma sacerdoti e diaconi per poter istituire una vera comunità. Genserico, conosciuto il successo della propaganda cattolica, ordinò l'uccisione dei quattro fratelli. Il supplizio fu tremendo: vennero legati per i piedi ad una quadriga di cavalli, che a corsa sfrenata li trascinò a sfracellarsi fra sterpi e sassi.
Non risulta da Vittore né l'anno né il mese del martirio: certo avvenne dopo la metà del secolo V. Il primo mese che fissò una data e l'inserì come Martiri nel suo Martirologio fu Floro (secolo IX) al 17 ottobre. Adone invece volle unirli ai duecentosessantasei martiri menzionati dal Geronimiano al 16 ottobre (anche nel Martirologio Romano sono menzionati in questo giorno); ma fu un'aggiunta ingiustificata, giacché si tratta di martiri di epoche assai diverse.

(Autore: Gian Domenico Gordini - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santi Martiniano, Saturiano e Massima, pregate per noi.

*San Mommolino di Noyon - Vescovo (16 ottobre)

† Noyon, Francia, 686
Martirologio Romano: A Noyon in Neustria, ora in Francia, San Mummolino, vescovo, che dapprima da monaco aiutò sant’Audomaro nel lavoro missionario e succedette poi a sant’Eligio nella sede episcopale.
San Mommolino era originario della zona di Coutances in Normandia. Divenne monaco presso Luxeuil e fu poi inviato insieme a due confratelli a Sant’Omero nell’Artois, regione della Francia settentrionale, per evangelizzare la popolazione dei morini.
Intrapresero dunque la fondazione in un luogo oggi chiamato Saint-Mommélin, e proprio Mommolino ne fu l’abate sino a quando, dopo parecchia anni, si trasferirono nel nuovo monastero di Saint-Pierre a Sithiu.
Alla morte nel 660 del celebre Sant’Eligio, vescovo di Noyon, Mommolino fu chiamato a succedergli sulla cattedra episcopale dal re Clotario III, che apprezzava la sua conoscenza della lingua germanica.
Il novello vescovo resse tale diocesi per ben ventisei anni. Tra le sue prime preoccupazioni vi fu quella di fondare un monastero presso l’odierna città di Saint-Quentin, che affidò alla guida di Bertram. Morì infine verso l’anno 686. Numerosi documenti recano la sua firma.
Sul luogo della sua sepoltura sorse poi una basilica in suo onore. Sono state tramandate due vite del santo in lingua latina.
(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Mommolino di Noyon, pregate per noi.

*Beato Umberto di Fritzlar - Monaco (16 ottobre)

VIII sec.
Il Beato Umberto di Fritzlar è un monaco benedettino tedesco vissuto nel secolo VIII.
Di lui sappiamo solo il suo nome e l’appartenenza alla celebre abbazia di Fritzlar, in diocesi di Magonza, fondata da San Bonifacio, l’apostolo della Germania.
C’è un’antica tradizione lo indica quale priore di Buraburg, intorno alla metà del secolo VIII.
La sua festa è stata fissata nel giorno 16 ottobre, anche se nel volume “De viris illustribus” di Tritemio viene anticipata al giorno 7 ottobre, dove il Beato Umberto viene definito “vir sanctus atque eruditus, atque regularis disciplinae zelosus amator”.

(Autore: Mauro Bonato - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beato Umberto di Fritzlar, pregate per noi.

*San Vitale - Eremita in Bretagna (16 ottobre)

Martirologio Romano:
Nel territorio di Retz vicino a Nantes in Bretagna, san Vitale, eremita.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Vitale, pregate per noi.

*Altri Santi del giorno (16 ottobre)

*San
Giaculatoria - Santi tutti, pregate per noi.

Torna ai contenuti